La questione del desiderio.
Il titolo non è niente altro che una frase di Teresa d’Avila.
Soprattutto quando si parla di amore.
Sappiamo come l’amore è fonte di sofferenza.
L’attimo in cui intravvediamo distrattamente una vita che non potrà mai appartenerci del tutto – perché non sarebbe più la vita di un altro ma una proiezione della nostro o, nella migliore (peggiore?) delle ipotesi, un suo prolungamento – non è per forza un segno di vulnerabilità, anche se possiamo raccontarcela così.
È il momento in cui smettiamo di fissare la nostra ferita narcisistica che ci accorgiamo della presenza del reale di un altro; e proprio lo slancio verso quell’altro ci fa muovere e ci rimette nel flusso della vita, rompendo l’incantesimo che ci ha bloccato in una bolla infernale dello spazio-tempo.
Ma come giungere a questa supposta e sempre possibili guarigione?
Certo con la psicoterapia, la psicoanalisi, ecc. (l’arteterapia, la socioterapia, ecc) Questo dovrebbe essere noto.
Io però vorrei concentrarmi su una forma diversa di cura dell’anima.
E cioè quella che fa capo alla scrittura, allo scrivere.
Scrivere per vivere potremmo dire.
Scrivere per sedare l’angoscia, il mal di vivere, la nevrosi, la psicosi.
Scrivere per sondare i limiti della propria identità,
Scrivere per migliorare la propria vita, per condividere dubbi o perplessità, per mettersi alla prova nella vita che scorre.
Perché la scrittura ci trasforma.
Lo spirito, per chi si applica alla scrittura, è quello di prendersi il lusso di dedicarsi ad un’attività creativa, piacevole, anche divertente.
Scrivere ci permette di costruire il nostro romanzo famigliare, di dargli forma, di offrirgli un orizzonte di senso. Ci permette di passare dalla fantasia all’immaginazione, e quindi dal delirio al simbolico … ed entrare nel mondo della relazione e della cultura, senza le quali non vi è vita ma sofferenza e follia.