I modelli interpretativi classici della storia umana sono in ultima analisi due: l’Essere Immutabile di Parmenide, che nasconde l’immobilismo della sostanza dietro l’apparenza del divenire, e il Tutto Scorre di Eraclito, per il quale nulla esiste in assoluto ma tutto si trasforma incessantemente in qualcosa d’altro. Da questi derivano le teorie del mutamento, non solamente nel campo della fisica e delle scienze naturali, ma anche di quelle umane e sociali. In linea di principio, dal primo trae origine il pensiero conservatore, dal secondo quello progressista. Il prevalere dell’uno o dell’altro dipende dai diversi accidenti della storia, e il passaggio da una situazione statica a una dinamica coincide quasi sempre con sconvolgimenti di vario tipo: rivoluzioni, guerre, persecuzioni, genocidi, crisi economiche e simili, se ci riferiamo agli Stati; fallimenti, rovesci di fortuna, scandali, rovina di aziende e famiglie, nel caso di perturbazioni che interessano la sfera privata. Il mutamento sociale, perciò, richiede spesso vittime innocenti, non importa se poche o molte. L’antropologia classica, fondata sul principio darwinistico della sopravvivenza del più adatto, accetta passivamente tutto questo, ritenendolo l’inevitabile prezzo da pagare alla lotta per la vita, il solo possibile fattore di progresso.
I sostenitori di simile teoria sembrano trovare conferme negli eventi di tutte le epoche, indistintamente caratterizzate da conflitti più o meno sanguinosi che si accompagnano ai processi di cambiamento. Ciò che essi non dicono, però, è quali e quante risorse umane, materiali, spirituali, intellettuali, vengono distrutte in tal modo; risorse che, nel contesto di un diverso modello di convivenza, avrebbero potuto servire all’evoluzione assai meglio e in tempi più rapidi della guerra di tutti contro tutti descritta da Hobbes. La differenza non è soltanto quantitativa, ma anche fortemente qualitativa: una società che si proclama fondata sulla libertà e la dignità della persona, non dovrebbe mostrarsi insensibile alla sofferenza degli uomini, né tanto meno giustificarla come elemento da cui il progresso non può prescindere. Esiste però un’alternativa realistica e non puramente utopica al mutamento sociale traumatico, applicabile sia nel settore pubblico come in quello privato?
Secondo il pensiero tradizionale no, ma qui entra in gioco la nuova metodologia di ricerca inaugurata dalle scienze naturali moderne, in particolare dalla fisica relativistica einsteiniana. Scrive in proposito Silvestro Marcucci, già docente di filosofia morale presso l’Università di Pisa e noto esegeta del pensiero kantiano, nella prefazione a un mio saggio del 1983:
“Non diversamente da Kant, anche il Vivaldi-Forti si propone, su un piano generale, di compiere un giro d’orizzonte sulle concezioni di Einstein, di Heisenberg e di alti eminenti fisici, al fondamentale scopo di ricavarne un metodo di lavoro che ci consenta il superamento della spaventosa crisi in cui versa la società contemporanea e, su un piano più particolare, egli vuole disporre le scienze sociali ad effettuare una rivoluzione galileiana, la quale, ‘per analogia con quanto è avvenuto nell’altro settore conoscitivo (nella fisica), porterebbe nel mondo un progresso sociale, economico, politico senza precedenti, cancellando la violenza dalla storia, o almeno riducendola a episodi limitati e sporadici’. Aggiungiamo soltanto che il tema dell’analogia tra fenomeni fisici e fenomeni sociali, tra i fenomeni dell’universo e il fluire della storia, è quello portante dell’intero saggio, sicché si arriva a stabilire una connessione stretta tra la teoria fisica del moto e la teoria sociologica del mutamento sociale: come in fisica, sulla scia delle affermazioni einsteiniane, il moto può essere descritto sia dinamicamente che staticamente, lo stesso deve avvenire per le teorie del mutamento sociale, il quale deve essere ‘continuo’, senza scosse violente e senza rivoluzioni, per il benessere e la sopravvivenza di una umanità che vive nell’era atomica, piena di rischi e di pericoli sempre incombenti. Si tratta, in ultima istanza, di tradurre il linguaggio della fisica in quello dell’antropologia o della sociologia, e questo per un duplice ordine di motivi: per dare rigore e scientificità alle scienze umane, ma anche per poter apportare un contributo essenziale alla moralità dell’uomo” (1).
Non si creda inoltre che la concezione del mutamento sociale continuo, contrapposto a quello discontinuo o traumatico, interessi unicamente le macrostrutture e la grande politica. Al contrario, essa è applicabile anche, oseremmo affermare a maggior ragione, alle microstrutture, cioè a tutte le organizzazioni in cui si esplica l’attività umana, indipendentemente dai loro fini e dal loro status giuridico. Per meglio comprendere la portata del tema di cui sui tratta, sembra opportuno leggere le stesse parole di Albert Einstein, tratte da una sua celebre opera divulgativa:
“Una pianta di Roma e dintorni è aperta davanti a noi. Ci domandiamo: quali sono i punti che possiamo raggiungere con il treno? Dopo aver consultato un orario ferroviario, potremo marcare sulla nostra carta i diversi punti corrispondenti alle fermate dei treni. Se ora ci domandiamo quali di questi possono raggiungersi con l’automobile, potremo senz’altro tracciare sulla pianta delle linee indicanti le varie strade che si staccano dal centro della città. Qualsiasi punto di tali linee può essere raggiunto con l’automobile. In ambedue i casi abbiamo una serie di punti, ma nel primo essi sono separati gli uni dagli altri dalle distanze più o meno considerevoli intercorrenti fra le stazioni ferroviarie, mentre nel secondo si susseguono senza interruzione lungo i tracciati delle strade. Possiamo inoltre domandarci quali siano le distanze dei punti in questione dal centro o da qualsiasi altro luogo della città. Nel primo caso a ciascuno dei punti corrisponde un determinato numero. Tali numeri variano irregolarmente e saltuariamente, ma sempre in misura finita. Diremo dunque che le distanze fra il centro della città e le località raggiungibili con il treno variano sempre in modo ‘discontinuo’. Per contro, i punti raggiungibili con l’automobile possono variare in qualsivoglia misura, per piccola che sia; possono cioè variare in modo ‘continuo’. Insomma, le distanze possono differenziarsi in misura arbitrariamente piccola usando l’automobile; non così se facciamo uso del treno” (2).
Se vogliamo raffigurarci graficamente le due situazioni, nel primo caso tracceremo una linea discontinua tra il punto C (centro della città) e le diverse stazioni toccate dalla ferrovia; nel secondo avremo una linea continua, nella quale i singoli luoghi raggiungibili con l’automobile appaiono talmente fitti da non poter essere più distinti l’uno dall’altro.
Immaginiamo adesso di applicare tale principio della discontinuità ai fenomeni sociali e in particolare a quel drammatico succedersi di eventi che in antropologia e in sociologia si chiama teoria del mutamento.
In un mio studio precedente ebbi occasione di definire l’evoluzione storica come una linea spezzata tendente verso l’alto (3). Purtroppo, a ciascun punto di rottura di essa corrispondono traumi socio-politico-economici di ogni genere. Se al contrario vogliamo rappresentarci il mutamento sociale sulla base della continuità, dobbiamo tracciare una linea ascendente priva d’interruzioni, all’interno della quale non si succedono più fasi nettamente distinte una dall’altra, generate da fenomeni di rottura violenta con l’assetto precedente, avendo previsto un cambiamento continuo e ininterrotto di situazioni, senza battute d’arresto e senza quei momenti involutivi che sono la causa di quegli scossoni di cui pareva non si potesse fare a meno.
I vantaggi di questo secondo modo di fare la storia balzano evidenti. Constatato, sulla base di una esperienza plurimillenaria, che il cambiamento sociale è inevitabile e a nulla valgono gli sforzi di coloro che ad esso si oppongono, l’alternativa resta tra il compiere una folle fuga dalla realtà, chiudendo gli occhi di fronte a ciò che avviene intorno a noi, oppure prendere atto dell’eterno fluire della storia e mettersi nelle condizioni d’intervenire su di essa, regolarla, incanalarla verso finalità e scopi costruttivi, sfruttarne al meglio le prorompenti energie. Ove tale obiettivo fosse raggiunto, la contrapposizione di fondo fra l’Essere Immobile di Parmenide e il Tutto Scorre di Eraclito verrebbe di fatto superata: le istanze conservatrici e quelle progressiste diventerebbero, in analogia con il pensiero relativistico di Einstein, due angoli visuali diversi della medesima realtà. Inutile sottolineare gli effetti rivoluzionari di questo cambiamento nella cultura umana.
Ma simile applicazione del metodo d’indagine delle scienze naturali a quelle umane può ritenersi corretto, oppure rappresenta una irruzione arbitraria di un campo di ricerca in uno completamente diverso? A tal proposito abbiamo già preso in esame la posizione del filosofo Silvestro Marcucci, il quale si appella al grande Emanuele Kant per avvallare la liceità di tale trasposizione. Potremmo andare oltre, ricordando le conclusioni del fisico Percy Williams Bridgman, che con assoluta chiarezza pone il corretto funzionamento della mente umana come pregiudiziale irrinunciabile al progresso della scienza, invocandone una crescita continua, progressiva, non più bisognosa di rotture radicali, in armonia con quanto operato da Einstein:
“Qualunque sia la nostra opinione circa l’accettazione dei dettagli analitici della teoria della relatività, non vi è dubbio che grazie a questa la fisica conosce un cambiamento permanente. Lo scoprire che i nostri concetti classici, ammessi senza discussione, erano inadatti ad affrontare la situazione effettiva, ha costituito una grande sorpresa, da cui è nato un atteggiamento critico nei riguardi di tutta la nostra struttura concettuale. Guardando ora verso l’avvenire, possiamo affermare che le idee circa il mondo esterno saranno sempre soggette a cambiamenti, con l’aumentare della nostra conoscenza sperimentale; però vi è una parte del nostro atteggiamento verso la natura che non dovrebbe mai cambiare in avvenire, precisamente quella parte che poggia sulla base stabile del carattere della nostra mente. Dovremmo ora dedicarci alla ricerca di una comprensione così profonda del carattere dei nostri rapporti mentali con la natura, che diventi impossibile un altro cambiamento nel nostro atteggiamento come quello dovuto a Einstein. E’ comprensibile che una rivoluzione dell’atteggiamento mentale abbia avuto luogo una volta, ma non avremmo scuse se in futuro giungessimo a considerare necessaria un’altra rivoluzione del genere” (4).
L’illustre fisico non ritiene di contraddire il rigore logico della propria disciplina, assegnando alla scienza della mente, che è la psicologia, il compito di creare un metodo di ricerca universalmente valido, a cui l’intero pensiero critico possa fare riferimento. Molti altri autori potremmo citare, che condividono il medesimo ordine di preoccupazioni, e fra questi lo stesso Werner Heisenberg (5). Fondamentale, però, è il contributo delle stesse scienze umane, sempre più rigorose e sperimentali, sempre meno arbitrarie e soggettive, mano a mano che il metodo di ricerca di quelle naturali si comunica loro. L’antropologia culturale, che da sempre si occupa del funzionamento della società umana, ha coniato termini precisi per la sua descrizione. La corrente strutturalista, rappresentata da Radcliffe-Brown e da Malinowski, afferma la necessità del rapporto fra struttura e funzione: nessuna funzione può essere assolta, sul piano sociale, se non da una struttura, e ogni struttura socio-culturale non può essere compresa indipendentemente dalla sua funzione. Radcliffe-Brown fa uso di tre modelli di ricerca: il processo, la struttura,la funzione. Il processo indica il sistema sociale nel suo complesso, la struttura ne rappresenta una parte atta ad assicurarne il funzionamento, la funzione è il compito assegnato a ciascuna parte.
In merito si pone un interrogativo di fondamentale importanza, che ritroveremo nella distinzione fra mutamento sociale continuo e discontinuo. Secondo Radcliffe-Brown e la maggioranza dei funzionalisti moderni, vi è una identificazione fra il concetto di funzionante con quello di funzionale: tutto ciò che funziona nella realtà è secondo loro anche funzionale, ossia serve positivamente allo svolgimento di un compito indispensabile al sistema e alla sua sopravvivenza. Carlo Tullio Altan, celebre antropologo italiano, esprime dubbi circa l’origine di questa teoria:
“L’identificazione fra funzionante e funzionale ci ricorda molto da vicino un’analoga identificazione fra ciò che è reale ( funzionante) e razionale ( funzionale ) nella ‘Filosofia del Diritto’ di Hegel, poi interpretata in modo opposto dalla destra e dalla sinistra hegeliane” (6).
L’autore propone un esempio che dovrebbe risultare chiaro a tutti per distinguere il concetto di funzionante ( reale) e di funzionale ( razionale): quello del Terzo Reich. Se all’interno di questo consideriamo la polizia segreta, o Gestapo, secondo una rigorosa interpretazione funzionalista dovremmo concludere che tale struttura ha effettivamente contribuito a garantire il funzionamento dell’intero sistema. Il Terzo Reich, anche grazie a questo istituto, può quindi essere giudicato funzionante, ma potremmo definirlo anche funzionale? Se quest’ultimo termine è sinonimo di capace a risolvere i problemi del proprio tempo, di sicuro il Terzo Reich non lo fu, rappresentando invece un fenomeno di disfunzione manifesta. Seguendo tale criterio, possiamo concludere che non solamente tutti i sistemi esistenti, o funzionanti, non sono automaticamente funzionali, ma addirittura quelli disfunzionali cessano prima o dopo di esistere anche come tutto, in quanto inidonei a fronteggiare la situazione problematica in cui operano. Ciò rappresenta la base su cui poggia l’intero concetto di mutamento sociale.
La maggior parte delle strutture, quando sorgono, corrispondono ai bisogni concreti e immediati dell’uomo in una data situazione, e per questo possiamo definirle funzionali, oltre che funzionanti, e ciò a tutto vantaggio del sistema nel suo complesso. Una successiva incongruenza fra sistemi e situazione è generalmente causata dall’insorgere di problemi nuovi o radicalmente mutati, non culturalmente previsti, oppure dal superamento dei problemi per risolvere i quali quella struttura era sorta. Essa, perciò, si fa incongruente rispetto alla situazione in cui opera. Ora, se un sistema non mantiene uno stretto contatto con la situazione evolutiva, si trova rapidamente in contrasto con i problemi che la caratterizzano, si fa anacronistico e quindi disfunzionale, ma c’è di peggio. La struttura in questione, da positiva che era, diviene un peso sempre più gravoso e intollerabile per la società intera: la sua direzione si sclerotizza, gli interventi della sua dirigenza diventano sempre più spesso fine a se stessi, distruttori e non produttori di risorse, e la sua esistenza si trascina stancamente, tutelata soltanto dalla vischiosità e dalla inamovibilità della burocrazia, in uno scenario sempre più irrealistico e autoreferenziale, fino al suo crollo traumatico. Quando la sfasatura eccede certi limiti assume carattere patologico, e anche lo stato di tensione raggiunge un livello analogo, portando nella condizione umana a gravi, talvolta gravissimi sconvolgimenti psicologici e sociali. Afferma Carlo Tullio Altan:
“I grandi eventi rivoluzionari non sono stati altro che gigantesche operazioni di riadattamento di strutture e istituzioni, valori e modelli di comportamento a situazioni profondamente mutate, peraltro sempre precedute da singolari stati d’animo collettivi. Si pensi alla ‘grande peur’ che precedette la Rivoluzione francese, si pensi alla documentazione offertaci da tutta la grande letteratura russa dell’Ottocento e primo Novecento, in cui scorgiamo una società profondamente travagliata da un’angoscia senza una chiara definizione, senza una netta prospettiva per poterne uscire ( i personaggi filosofanti di Cechov). E quello che si verifica sul piano della storia lo si riscontra anche sul piano psicologico individuale” ( 7).
Importantissimo questo ulteriore richiamo alla psicologia, sociale e individuale, da parte di un antropologo puro! La crisi del mondo contemporaneo presenta drammaticamente tutti questi aspetti: obsolescenza di molte strutture private e pubbliche, disfunzionalità complessiva dei sistemi sociali e politici, disagio esistenziale, angoscia e, nei casi estremi, malattia mentale. Le scienze umane di oggi si limitano tuttavia a formulare pessimistiche diagnosi riguardo alla situazione umana, oppure cercano vie d’uscita, soluzioni in grado di ridare fiducia e speranza al soggetto, in modo che non si riduca a manifestare la propria sofferenza, ma sia anche in grado di riprendere in mano il proprio destino?
Tale interrogativo riguarda nel profondo tutte le scienze dell’uomo: antropologia, sociologia, psicologia, economia, diritto. In antropologia è fondamentale la distinzione fra operazioni di riconoscimento e di conoscenza. Il primo caso si verifica quando il soggetto, posto di fronte a un problema, cerca di risolverlo applicando il patrimonio di cultura acquisito in passato grazie all’educazione. Normalmente, se esso concerne strutture e situazioni definite funzionali, vi riesce senza particolari difficoltà. N on così, invece, quando si trova davanti a realtà fortemente nuove e mutevoli, nelle quali l’impiego delle nozioni acquisite, e perciò scontate, si rivela strumento insufficiente sia per la loro comprensione sia per un intervento positivo sulle stesse. Qui ci troviamo confrontati con una operazione di conoscenza, per eseguire la quale con successo è indispensabile immaginare soluzioni diverse da quelle usuali: la cultura ricevuta fino a quel momento non può più essere utilizzata in modo automatico, ma necessita di un opportuno riadattamento in vista di una sintesi superiore. La personalità capace della prima operazione è definita di base, mentre a quella predisposta per la seconda si attribuisce il nome di autentica.
Se volessimo ritornare al paragone da cui eravamo partiti, potremmo ricondurre la personalità di base alla posizione conservatrice di Parmenide, e quella autentica alla visione progressista di Eraclito. La dialettica permanente fra queste due posizioni, però, è la causa prima di tutti i drammi della storia, collettivi o individuali. Per eliminare tutto ciò che è divenuto disfunzionale e recuperare la funzionalità dei sistemi, l’esperienza ci presenta un conto salatissimo in termini di sofferenza e distruzione. Sarà dunque mai possibile applicare al comportamento umano il principio del moto continuo già patrimonio della fisica? Potranno mai integrarsi, nell’interesse generale, le posizioni di Parmenide e di Eraclito? Non è soltanto Einstein a rispondere positivamente, ma anche Carlo Tullio Altan, pur ponendo certe condizioni:
“La lotta sarà sempre legata alla dinamica della società e della cultura. Ma non è detto che tale contrasto debba necessariamente raggiungere l’acme rivoluzionario, come operazione violenta. Questa ha luogo quando in una società le strutture di trasformazione, di formazione della nuova volontà politica e di ricerca socio-culturale, non rispondono alla loro funzione. In tal caso il sistema anacronistico si cristallizza in forme rigide che si oppongono in modo drastico a ogni tentativo di riforma, portando il grado di tensione sociale fra sistema e antisistema a un acme che sfocia nella violenza” (8).
L’autore getta chiaramente le basi del passaggio dalla visione tradizionale della storia, a salti, verso quella di una continua e pacifica trasformazione delle strutture sociali, in modo da correggerne gli anacronismi mano a mano che si presentano, senza mai giungere allo scontro violento tra opposti interessi. Perché ciò si verifichi, tuttavia, è necessario che le istituzioni sociali, politiche e amministrative subiscano radicali riforme, nel senso della partecipazione integrale, o sociocrazia, condizione irrinunciabile per prevenire la paralisi burocratica di ciò che è diventato disfunzionale. Occorre sottolineare ancora una volta che questo nuovo assetto della convivenza umana non riguarda esclusivamente le istituzioni pubbliche, ma ogni tipo di organizzazione. Nei lontani anni Settanta, quando la gravissima crisi della cantieristica olandese condusse la sua azienda elettrotecnica a un passo dal fallimento, l’ingegnere Gerard Endenburg, presidente della Fondazione Sociocratica di Rotterdam, riuscì a salvarla in extremis proprio applicandovi la partecipazione integrale, di cui è sempre stato convinto assertore e illustre studioso. La nuova frontiera del mutamento continuo è quindi particolarmente utile nei momenti di più grave crisi. A questi aspetti istituzionali e giuridici, che mi propongo di approfondire in uno specifico intervento, ho dedicato un recente saggio, con prefazione del noto psicoanalista e uomo politico svizzero Orlando Del Don, come premessa per ulteriori studi e ricerche (9).
CARLO VIVALDI-FORTI
NOTE
- Silvestro Marcucci, prefazione al saggio di Carlo Vivaldi-Forti, Problemi di metodologia scientifica nella ricerca psicologica umanistica, Thule, Palermo 1983.
- Albert Einstein, Leopold Infeld, L’evoluzione della fisica, Boringhieri , Torino 1965, p.259.
- Carlo Vivaldi-Forti , La crisi della società contemporanea, ed. Patron , Bologna 1979, p.64.
- Percy Williams Bridgman, La logica della fisica moderna, ed. Boringhieri, Torino 1977, p.33.
- Werner Heisenberg, Mutamenti nelle basi della scienza, ed. Boringhieri, Torino 1978.
- Carlo Tullio Altan, Antropologia funzionale , ed. Bompiani, Milano 1970, p.38.
- Carlo Tullio Altan, , p. 68.
- Carlo Tullio Altan, , p.161.
- Carlo Vivaldi-Forti, Davanti al male un uomo non può esitare, Flamingo, Bellinzona 2016, pp.105-187.