Se Cartesio vivesse nei nostri giorni che cosa penserebbe del suo “Cogito ergo sum”?
Soffermiamoci un attimo a osservare la società post-moderna. Quali sono i valori che ci vengono trasmessi?
In un mondo dove vige la regola del “Non ci sono regole”, dove i limiti non esistono e le possibilità non hanno confini, dove il godimento non conosce legge e l’offerta di modelli preconfezionati da seguire è tanto vasta da far venire il capogiro, che posto viene riservato all’individuo, all’unicità e irripetibilità del suo esistere nel mondo?
In una società dove la realizzazione personale passa attraverso un ideale di successo, dove il successo viene misurato dal quantitativo di oggetti da possedere, che cosa dà veramente significato alla nostra esistenza?
La drammaticità del nostro tempo non sta tanto nel trionfo dell’avere sull’essere, ma dalla distruzione della discriminante tra i due.
L’avere, il possedere, diventa ciò che permette di attribuire significato alla propria esistenza. Sei importante se hai. Se hai sei un vincente, sei dotato, attraente, desiderato, ammirato, invidiato. Ma, soprattutto, se hai… sei riconosciuto.
Non dobbiamo stupirci allora se, quando ciò che conta è come appariamo all’altro, siamo costretti ad alienarci da noi stessi e usare il giudizio dell’altro su di noi per dar senso e forma non soltanto al nostro agire, ma al nostro sentire.
L’aspetto paradossale e ironico di tutto ciò sta nel fatto che proprio in una società che non pone divieti e regole, ci ritroviamo ad ingabbiare e nascondere tutto ciò che potrebbe conferirci un’immagine che va in contrasto con l’ideale del successo.
“Non mostrarti dubbioso, sembreresti un perdente”; “Non mostrarti triste, sembreresti un debole”;
“Non arrossire e non farti tremare la voce dall’emozione, sembreresti un incapace”.
In un mondo che non conosce confini imponiamo a noi stessi un controllo serrato delle nostre emozioni, legiferando ciò che possiamo permetterci di provare e riducendo a poche variabili ciò che dobbiamo essere.
In questo panorama sociale di atrofizzazione emotiva, assistiamo all’aumento delle manifestazioni psicopatologiche più disparate: tossicomania, depressione, disturbi d’ansia, dipendenze patologiche, disturbi alimentari ecc.
Questi disturbi evidenziano la presenza di una crisi profonda, ma è proprio a partire da questa crisi che allora la sofferenza può diventare un atto di libertà, un grido di ribellione che obbliga a fermarsi, a guardarsi dentro ed entrare in contatto con sentimenti che a troppo lungo sono rimasti stagnanti, silenti. La sofferenza obbliga anche a guardarsi intorno, a sviluppare un pensiero critico su ciò che si è sempre dato per scontato.
Quante volte ci siamo sentiti dire: “Eh ma le cose stanno così, questa è la società e noi non possiamo farci niente”.
Dicevamo, “cogito ergo sum”, oggi. Perfezione contro imperfezione.
Solo attraverso un coraggioso atto di presa di coscienza, di maturità emotiva che impone a non passare oltre, lasciando inosservate le contraddizioni presenti nella nostra società, si potrà ridare valore alla massima cartesiana.
Penso (e sento), dunque sono.
Non è facile, ma si può.