Ci sono certe esperienze di vita che scavano come tarli nella materia della nostra essenza, nutrendosi della nostra autostima, fiducia e sicurezza. Rimane un involucro, che vorremmo solo nascondere, buttare, eliminare, far sparire una volta per tutte. Ci osserviamo e l’unica cosa che riusciamo a realizzare è che non ci piacciamo, oppure iniziamo a prendercela con coloro che crediamo essere i responsabili della nostra sofferenza: i nostri genitori, la società, il fato ecc.

Questa è l’esperienza personale di molti: nel mio lavoro, quando una persona varca la soglia del
mio studio per la prima volta, spesso ciò che riferisce in prima battuta recita più o meno così: “Da quando mi è successa questa cosa non mi riconosco più, non sono più io… Vorrei solo poter tornare indietro ed eliminare le tracce di questa cosa una volta per tutte dalla mia vita… Vorrei dimenticare per ricominciare da capo”.
Solitamente questo atteggiamento porta solo ancora più dolore, poiché impone una dura presa di posizione non solo nei confronti di ciò che può essere eventualmente successo, ma contro se stessi. Ci si ostina a inveire contro il proprio modo di reagire auto-criticandosi senza esclusione di colpi, oppure ci si avventa contro un nemico esterno, responsabile delle nostre disgrazie.

Quale sia l’atteggiamento e l’attribuzione di responsabilità, il risultato non cambia: ci indeboliamo sempre di più, passivizzandoci, imbruttendoci, perdendo spinta vitale e fiducia in noi stessi e negli altri. Ci isoliamo, ci nascondiamo, ci chiudiamo all’interno della cella della nostra sofferenza gettando via la chiave.
Questo perché sentiamo che ci è stato tolto qualcosa di importante, vitale. Magari è così, nella vita le brutte esperienze colpiscono tutti.

Ma è quando il senso della perdita immobilizza, quando congela e porta all’involuzione, che il dolore diventa persecutore, e la paura continua a crescere ogni giorno di più.
Quando ci troviamo in situazioni come queste, il messaggio simbolico tratto da un’antica, quanto profonda, tecnica giapponese può venirci d’aiuto: si tratta del Kintsugi.

Questa tecnica consiste nel riparare le suppellettili (come tazze, piatti, vasi) riempiendo le crepe con resina laccata e polvere d’oro. La suppellettile si può anche rompere in vari pezzi, ma non la si butta via, non la si cambia con qualcosa di nuovo e diverso.
Al contrario, si esaltano le sue fratture, arricchendole d’oro. E nel far ciò, rimane uguale a se stessa e allo stesso tempo diventa qualcosa d’altro. Qualcosa di estremamente prezioso. Le sue fratture raccontano la sua esperienza, le difficoltà a cui è andata incontro. Raccontano la sua storia. E una storia, qualsiasi essa sia, vale sempre la pena di essere vissuta, e raccontata.

D’altronde, qual è l’alternativa? La nostra storia personale è l’unica che possiamo vivere, non ci sono alternative. E quando viene stravolta da eventi spiacevoli, anche drammatici, tali eventi ci cambiano. Che lo vogliamo oppure no diventano parte di noi, entrano nelle trame della nostra identità. Senza questi eventi non saremmo più noi.

Possiamo anche decidere di buttare via la nostra vita, oppure possiamo, attraversando il dolore, toccando ogni sua ruvidità, integrare questi eventi nella nostra storia. E nel farlo possiamo crescere e impreziosire la nostra vita di profondità, determinazione e saggezza.

Simona Misiti