Nell’anno in corso ricorre il cinquantesimo anniversario del Sessantotto, ossia di quel movimento internazionale che scosse le certezze più radicate di un mondo che, malgrado due guerre devastanti, era sopravvissuto in sostanza fino ad allora. Non è qui il caso di esprimere giudizi su quell’esperienza storica, anche perché troppi lo hanno fatto, a proposito e a sproposito. A mezzo secolo di distanza, tuttavia, è giunto il momento di sfatare taluni miti sorti intorno ad essa e duri a morire. Uno di questi è il ruolo giocato dalla celebre Scuola di Francoforte, da molti ritenuta una colonna portante degli avvenimenti occorsi a quell’epoca.
Nessuno può certo negare che le opere di uno dei suoi maggiori esponenti, il filosofo Herbert Marcuse, fossero sventolate, a guisa di stendardi, dagli studenti della Sorbonne e di Nanterre sulle barricate parigine, come pure dagli emuli di Cohn-Bendit “il Rosso” a Berlino, o dagli occupanti dell’Università di Roma negli scontri a Valle Giulia, peraltro colpiti dalla dura scomunica di Pier Paolo Pasolini, il quale dichiarò di sentirsi più vicino ai poliziotti che ai manifestanti, definiti “figli di papà”. L’uomo a una dimensione del professore tedesco era divenuto una sorta di Vangelo rivoluzionario, insieme al libretto rosso di Mao e al Capitale di Marx. Come dimenticare poi gli slogan più ricorrenti, quali Vietato vietare, L’immaginazione al potere, Fascisti,borghesi ancora pochi mesi, e simili? Molti di questi, da parte di agitatori e capipopolo improvvisati, venivano sbrigativamente attribuiti alla Scuola di Francoforte, assunta a modello di accademia rivoluzionaria, con cui si volevano sostituire quelle reazionarie esistenti. Purtroppo ancora oggi, nell’immaginario di molti, simile accostamento continua a trovare spazio, equiparando in tal modo una illustre scuola di pensiero a utopie e farneticazioni spesso irresponsabili. Ecco perché oggi occorre ristabilire la verità.
Senza dubbio qualcosa di vero, in tali valutazioni, esiste. Nessuno può negare che il marxismo, come interpretazione critica della società capitalista, faccia parte del patrimonio culturale degli esponenti di quella corrente, basti pensare a Theodor W. Adorno o a Max Horkeimer, per non parlare di Habermas. Sarebbe però del tutto errato etichettare come marxisti gli autori citati, almeno nell’accezione che a questo termine viene comunemente attribuita dalla propaganda politica. Per tutti costoro, le teorie del filosofo di Treviri rappresentano uno strumento di analisi e una base di indagine sociale della realtà, ma non certamente una ideologia cristallizzata o una verità rivelata e immodificabile, come nell’uso di potere che i bolscevichi ne avevano fatto dopo il 1917. Adorno, ad esempio, nega che il principio marxista del rispecchiamento della società nella coscienza umana, su cui si fonda psicologicamente il determinismo storico, corrisponda a verità (1).
Senza considerare altri autori, come sarebbe possibile, il suo pensiero sembra sufficiente a comprendere la differenza fra l’approccio marxista tradizionale e quello della Scuola di Francoforte, il quale, pur servendosi della dialettica hegeliana come strumento interpretativo della storia, si pone fondamentalmente il problema della libertà dell’uomo, inteso come soggetto dotato della capacità di decidere e non come semplice prodotto dei rapporti economici esistenti. Tale indirizzo è comune, in misura più o meno marcata, a tutti i pensatori che hanno aderito a quel club, incluso lo stesso Marcuse, malgrado la maggiore vicinanza di quest’ultimo alla politica comunista. Gli slogan sessantottini, presi alla lettera anche da molti storici contemporanei, hanno di fatto ignorato questa differenza essenziale, allo scopo di favorire quella sperata unità del mondo operaio con quello intellettuale di sinistra, che invece non si è mai realizzata. La più autentica preoccupazione dei francofortesi riguarda proprio il problema della libertà, secondo loro minacciata in entrambi gli emisferi in cui si divideva il pianeta al tempo della guerra fredda.
Ciò rinvia alle contraddizioni già evidenziate da Adorno a proposito del determinismo storico e della pretesa identificazione, da parte di questo, della coscienza individuale con i rapporti di forza esistenti nella società. Ove, infatti, si ritenesse il destino umano fatalisticamente causato da circostanze superiori alla volontà del soggetto, l’intera attività del pensiero e financo dell’azione risulterebbe inutile. Una delle massime contraddizioni dei pensatori deterministi è proprio questa, che mentre da un lato considerano la storia eterodiretta rispetto all’uomo, dall’altro vedono la sua sola possibilità di liberazione in una rivoluzione che egli stesso deve però compiere, in quanto consapevole protagonista. Secondo costoro esistono due tipi di soggetto storico, quello che crea gli strumenti della produzione ( l’uomo tecnologico o homo faber) e quello che se ne serve a livello pratico ( l’uomo economico, destinato quindi a dar vita all’uomo politico). Il progresso sarebbe determinato integralmente dal primo, cioè dall’homo faber, mentre i comportamenti degli altri due non sarebbero che riflessi speculari delle realizzazioni e delle innovazioni di quello.
La contraddizione esplode in tutta la sua evidenza laddove si afferma che per far scoppiare i moti rivoluzionari occorre una presa di coscienza di classe dei ceti danneggiati dall’irrazionale organizzazione dell’economia, essendo a tale scopo indispensabili propaganda e attivismo politico. Dalle premesse rigidamente deterministiche da cui si è partiti, si giunge perciò al più aperto volontarismo che, praticamente, si trasforma in fede cieca nelle capacità carismatiche dei capi, ossia della nuova élite rivoluzionaria, a cui le masse devono incondizionata obbedienza. Se l’homo faber è ordinariamente il vero protagonista della storia, l’homo oeconomicus l’esecutore e l’homo politicus il servo, non si comprende in qual modo, durante la rivoluzione, queste parti si debbano invertire a vantaggio del solo homo politicus, pur insistendo a negare il ruolo della coscienza negli eventi umani. L’accento posto dalla Scuola di Francoforte sul problema della libertà riguarda la contraddizione in cui cade il determinismo quando pretende indicare una soluzione positiva alla crisi della società contemporanea, ma come risultato di un processo intrinsecamente necessario. E’ infatti difficile comprendere come la libertà possa nascere necessariamente, e ancor più in cosa consista una libertà necessaria o necessitata. Evidentemente ci troviamo di fronte a un pericoloso tentativo di distorcere il corretto funzionamento della ragione a fini ideologici e propagandistici.
A questo punto, però,è necessario avviare una riflessione su ciò che s’intende per natura umana, problema ignorato dai deterministi. Scrive lo psicologo Abraham Maslow:
” Nel pensiero moderno è prevalsa la concezione ottusa secondo la quale la psiche è solamente uno specchio della realtà. La psicologia è in parte un ramo della biologia, in parte della sociologia, ma non rimane circoscritta ad esse. Possiede pure una propria giurisdizione specifica, ed è quella porzione della psiche che non costituisce un riflesso del mondo esistente o una stampa a sua immagine”(2).
In effetti molti errori del pensiero contemporaneo poggiano proprio sulla concezione della psiche come tabula rasa, il cui solo compito sarebbe quello di riprodurre ciò che la circonda. Se così realmente fosse non potremmo sperare in nessuna forma di miglioramento, di progresso e neppure di mutamento sociale, in quanto i condizionamenti negativi esistenti, plasmando nello stesso senso l’anima dell’uomo, si perpetuerebbero all’infinito. La psicologia umanistica ha avvertito tale problema, rendendosi conto dell’impossibilità di proseguire sulla falsariga del cosiddetto relativismo gnoseologico. Essa comincia finalmente a comprendere che soltanto restituendo all’uomo il gusto del rischio, la piena responsabilità delle scelte, la vertigine della libertà, è possibile costruire un mondo meno disumano e più armonico. A tali aspetti si è in particolare consacrato uno dei più noti esponenti della Scuola di Francoforte, celebre per la sua originalità, che non a caso non è filosofo o sociologo, ma psicoanalista d’indirizzo umanistico: Erich Fromm. Il suo contributo è tanto più interessante, in quanto non si limita all’analisi della realtà, ma giunge a formulare soluzioni concrete per il superamento della crisi epocale odierna.
L’illustre pensatore tedesco non avrebbe mai accettato l’appellativo di liberale, essendo un convinto socialista, ma un socialista sui generis, che privilegia il valore della libertà rispetto a quello della giustizia sociale, pur non rinunciando affatto a quest’ultimo. Egli sottolinea infatti che la società esiste per l’uomo e non l’uomo per la società. Questa, anzi, perde la sua legittimazione morale nel momento stesso in cui nega il rispetto della persona, unica e irripetibile. Simile visione del mondo esige il recupero di una rigorosa dimensione etica, la quale, ben lungi dal rappresentare un pretestuoso argomento agitato dalle forze reazionarie, appare invece l’ultima spiaggia della dignità umana. Abbiamo dolorosamente sperimentato, più volte, ove conducono le concezioni cosiddette neutrali o relativistiche: alla guerra di tutti contro tutti, al razzismo, all’oppressione delle minoranze, alla lotta di classe, a violenze di ogni genere e misura. Queste bastano da sole a smentire la teoria dell’anima come tabula rasa. Scrive Erich Fromm:
“La specie uomo può essere definita non soltanto in termini anatomici e fisiologici; i suoi membri hanno in comune anche qualità psichiche fondamentali, le leggi che governano le loro funzioni mentali ed emotive, e lo scopo di dare una soluzione soddisfacente al problema dell’esistenza. In effetti la nostra conoscenza dell’uomo è ancora troppo incompleta perché sia possibile darne una definizione soddisfacente sotto l’aspetto psicologico. E’ appunto compito della scienza dell’uomo definire cosa si debba intendere per natura umana. Spesso con questo termine s’intende semplicemente una delle sue diverse manifestazioni, spesso una manifestazione patologica, e per lo più tale errata definizione ha la funzione di difendere un particolare tipo di società, come se questo fosse il prodotto della struttura mentale dell’uomo. Contro tale uso reazionario del concetto di natura umana, i liberali fin dal diciottesimo secolo hanno insistito sulla sua capacità di adattamento e sull’influenza decisiva dei fattori ambientali. Anche se vera ed importante, questa affermazione ha indotto molti sociologi a ritenere che la struttura mentale dell’uomo sia una carta bianca su cui la società e la cultura scrivono il proprio libro, e che di per se stessa non possiede alcuna qualità intrinseca. Questa ipotesi è in effetti non meno insostenibile e distruttiva per il progresso sociale di quanto lo fosse il punto di vista opposto. Il problema è di estrarre il nucleo comune a tutto il genere umano dalle molteplici manifestazioni dell’umana natura, sia normali sia patologiche, così come le osserviamo in individui e culture diverse. Bisogna inoltre scoprire le leggi inerenti alla natura umana, e le mete del suo sviluppo e del suo manifestarsi” (3).
L’autore non potrebbe, più chiaramente di così, prendere le distanze da quel relativismo conoscitivo, assunto a giustificazione da qualsiasi ideologia o tirannide, che esalta questa o quella particolare caratteristica dell’uomo, ma si rifiuta di considerarlo come totalità, come una sorta di microcosmo. Ecco perché, malgrado l’uso che ne fa spesso a livello interpretativo, non possiamo inserire Fromm tra gli epigoni del marxismo: definizioni apodittiche come homo faber, homo oeconomicus, homo politicus, restano per lui meri strumenti descrittivi di questo o quell’aspetto del sociale, senza tuttavia ritenerle sufficienti per una spiegazione onnicomprensiva, al contrario di quanto affermano le ideologie totalizzanti o totalitarie.
Egli, all’opposto di tutti gli autori che si fondano esclusivamente sulla biologia, considera l’uomo intrinsecamente diverso dall’animale, pur nella comunanza con questo delle esigenze di fondo. L’animale è contento quando i suoi bisogni fisiologici, fame, sete, sesso, sono soddisfatti. In quanto l’uomo è anche animale, questi bisogni sono per lui altrettanto imperativi; ma poiché trascende tale dimensione, l’appagamento delle necessità istintuali non basta a farlo felice e neppure sano di mente. La comprensione della psiche umana deve basarsi sull’analisi dei bisogni originati dalla sua specifica realtà esistenziale. Fromm ne elenca cinque, che considera irrinunciabili per l’uomo, indipendentemente dalla cultura e dall’epoca in cui vive: il bisogno di correlazione, di trascendenza, di radicamento, di identità e la necessità di un sistema di orientamento e devozione.
Queste istanze comprendono tutte le sue aspirazioni spirituali : quella di stabilire giusti rapporti con gli altri; realizzare le proprie qualità attraverso la creazione artistica, scientifica e letteraria; sentirsi partecipe di un corpo sociale ( la famiglia, la società, il mondo) capace di infondere sicurezza; essere coscientemente un Io autonomo e integrato; avere una fede, qualcosa in cui credere, per cui lottare e vivere. Fromm definisce sane le società che permettono al soggetto di sviluppare queste modalità di esistenza, malate quelle che glielo negano. Adottando tale parametro, nessuna società può oggi dirsi sana. Il vero problema è la mancanza di libertà autentica, alla quale egli dedica una intera opera, la celeberrima Escape from Freedom (4).
Secondo l’autore è possibile constatare, nel corso dei secoli, la tendenza verso una sempre maggiore individuazione della persona umana, verso il progressivo abbandono dei legami primari che impediscono al soggetto di emergere e di conquistare una piena autocoscienza. Dalla rigida integrazione dell’uomo medioevale nella comunità gerarchica di allora, si è passati, attraverso l’individualismo rinascimentale, il criticismo riformista, l’illuminismo, alla società consumistica e permissiva del XX° secolo, dalla quale sembra praticamente assente ogni forma di legame e di costrizione esterna. Eppure, mano a mano che la libertà acquistava terreno e i cosiddetti legami primari, d’ispirazione teologico-religiosa, venivano recisi, abbiamo assistito a sempre più pericolose involuzioni, a imprevedibili e apparentemente inspiegabili ritorni al passato. Chiedendosi la ragione di tutto ciò, Fromm crede di individuarla nell’esistenza di una forza agente in senso opposto a quella liberatrice, che tende a ricondurre l’uomo in schiavitù mediante l’illusoria rassicurazione contro il senso di solitudine, angoscia, paura, che lo assale via via che si emancipa dai legami primari. Quest’ultimi, pur negandogli la fondamentale libertà di scelta, lo avvolgevano protettivi come il feto nel grembo materno.
La nascita delle moderne tirannie, qualunque sia il principio ideologico a cui si richiamano, sarebbe dovuta a un inconscio desiderio di ritorno alla felice impotenza originaria, trasposizione, nella dimensione sociale, del principio del nirvana, del freudiano istinto di morte. L’uomo, cioè, è ben riuscito a liberarsi dalla soggezione al Dio aristotelico, al Dio della Scolastica, ma pagando un prezzo talmente alto, che spesso gli sembra inaccettabile: la mancanza di collocazione nell’universo, l’assenza di qualsiasi fede e, in ultima analisi, l’ignoranza dello scopo della vita. Assalito da questo terrore, che si oppone al suo naturale anelito verso il trascendente, cerca di recuperare le certezze perdute rimettendo la propria coscienza nelle mani di pericolosi demagoghi e di dittatori sanguinari, purché gli restituiscano un sia pur fittizio sentimento di senso e di scopo. Nel far ciò assume atteggiamenti masochistici e sadici, i quali, moltiplicati per i milioni di individui che se ne fanno travolgere, determinano le caratteristiche di quella società malata contro cui Fromm apertamente combatte. Ma cosa consiglia, in definitiva, per uscire dal circolo vizioso “rinuncia alla responsabilità- rinuncia alla libertà”, da cui proviene la maggior parte dei mali del nostro tempo? Ecco la sua ricetta:
“Quale società corrisponde a questo fine di salute mentale, e quale sarebbe la struttura di una società equilibrata? Innanzitutto una società in cui nessun uomo sia un mezzo per i fini di un altro, ma sia sempre e senza eccezione un fine in se stesso; dunque dove nessuno sia usato, e neppure usi se stesso per fini che non siano quelli dello sviluppo dei suoi poteri umani; dove l’uomo sia il centro e dove tutte le attività economiche e politiche siano subordinate al fine del suo sviluppo”.
L’indicazione fondamentale è quella di una società integralmente partecipativa:
“In realtà, la libertà politica è di per se stessa sempre illusoria. Un uomo che viva per sei se non per sette giorni alla settimana in soggezione economica non diverta libero facendo semplicemente , ogni cinque anni, una croce su una scheda elettorale. Per significare qualcosa per l’uomo medio, la libertà deve significare anche libertà industriale. Fino a che gli uomini nel loro lavoro non potranno riconoscersi soci di una comunità autodiretta, resteranno essenzialmente servi quale che sia il sistema politico in cui vivono. Anche lo Stato socialista lascia l’operaio nei vincoli di una tirannia che per essere impersonale non è meno esasperante. L’uomo è ovunque in catene e le sue catene non saranno infrante finché egli non senta che è degradante essere un servo, sia di un singolo che dello Stato” (5).
La cura che propone Fromm per risanare una società malata come la nostra, ove il lavoro svolge una funzione fin troppo spesso alienante e il cittadino-lavoratore può definirsi nella maggior parte dei casi alienato, anche quando non se ne rende conto, è la creazione di una comunità autogestita, simile alla polis greca, in cui si sviluppino forme di autogoverno dei governati e ciascun membro (polites) venga investito del potere di decidere in prima persona. Questo ritorno al soggetto della responsabilità sociale è una raccomandazione costante della psicologia e in particolare della psicoanalisi. Franco Fornari, allievo del grande Cesare Musatti e perciò nipotino spirituale di Freud, ha bene illustrato il meccanismo della moderna alienazione nel suo capolavoro Psicoanalisi della situazione atomica (6), in cui sostiene come la deresponsabilizzazione dell’individuo di fronte agli eventi collettivi rappresenti il più grave ostacolo sul cammino di una riumanizzazione della società contemporanea. Il suo sentirsi impotente, il suo allontanarsi dall’impegno pubblico sulla base del tristissimo ma comunissimo adagio “tanto non c’è nulla che possiamo fare”, conduce a quel rinunciatarismo sul quale prosperano le peggiori tirannie, si ammantino o meno di una parvenza di legalità e di democrazia.
La conclusione di Fromm, in linea con il pensiero liberale, è malgrado tutto ottimistica, ma perché tale ottimismo possa tradursi in realtà occorre restituire al cittadino-soggetto gli strumenti giuridici per esercitare effettivamente quella sovranità proclamata a gran voce dal moderno costituzionalismo, ma quasi mai applicata nella concretezza dei fatti. Certamente egli si rende conto che l’ideale dell’autogoverno a cui aspira, se poteva apparire di facile attuazione nella polis greca radunata sull’agorà, non altrettanto percorribile appare oggi, di fronte alle megastrutture statali composte da milioni di persone fra loro sconosciute. Anche a simile problema ipotizza però diverse soluzioni nella parte conclusiva, tutta da leggere e meditare, di Psicoanalisi della società contemporanea, proponendo la suddivisione della cittadinanza in tanti sottogruppi o circoli gerarchicamente ordinati, dai più piccoli, di Vicinato e di Quartiere, ai più grandi, di Comune, Regione, Stato e Agenzie internazionali, in modo che le decisioni assunte dalla base trovino diretta applicazione al vertice, senza intermediari istituzionali, ma per il solo fatto che i delegati dei circoli inferiori le rendono immediatamente effettive in quelli superiori, tenuti ad attuarle. Su questo presupposto si basa l’intera teoria della Partecipazione, comune a molte scuole di pensiero che, ove fosse tradotta in precise leggi e istituti costituzionali, modificherebbe in modo radicale i rapporti fra cittadino e Stato, rendendo la politica patrimonio di tutti e di ciascuno. Forse il 1968, pur nel suo proverbiale disordine, aveva questa radicale riforma della cosa pubblica come scopo ultimo, magari inconscio? Accingersi a realizzarla, avviando quella grande rivoluzione umanistica di cui la nostra società tecnologica ha disperato bisogno, sarebbe il miglior modo per celebrare il mezzo secolo da quegli eventi e dare finalmente loro un senso compiuto.
CARLO VIVALDI-FORTI
NOTE:
- Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi , Torino 1970, p.185.
- Abraham Maslow, Verso una psicologia dell’essere , Astrolabio , Milano 1971, p.42.
- Erich Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Comunità , Varese 1972, pp. 21-22.
- Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Comunità, Varese 1972.
- Erich Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, , p.265.
- Franco Fornari, Psicoanalisi della situazione atomica, Rizzoli, Milano 1970.